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Chiavelli, potenti e dannati

 

di Francesco Pirani

 

 

Tra le famiglie signorili che animarono la vita politica delle città italiane nel Basso Medioevo quella dei Chiavelli non è sicuramente una delle più famose, e neanche tra quelle menzionate nei libri di scuola. Forse per il fatto che oggi non restano segni visibili (palazzi, chiese e monumenti) a tramandarne la memoria. Eppure i Chiavelli, grazie a una energica gestione del potere, seppero assicurarsi per oltre due secoli una posizione di preminenza incontrastata su un importante centro della Marca anconetana, Fabriano.

 

Potenzialità di sviluppo

 

Posto in un’ampia conca assolata fra i monti dell’Appennino umbro-marchigiano, il nucleo insediativo di Fabriano era situato lungo l’asse viario che collegava la Toscana alle regioni adriatiche. I chiavelli furono pronti a intuire le potenzialità di sviluppo economico e politico che poteva avere quel piccolo borgo fortificato: ben presto decisero infatti di rinunciare alle loro prerogative di signori rurali per puntare tutto sul consolidamento della nuova realtà urbana in ascesa. Verso la fine del XII secolo, epoca in cui sono attestati i nomi dei più antichi esponenti della casata, i Chiavelli assunsero l’impegno di garantire la pace all’interno delle mura di Fabriano venendo a patti con altri potenti signori rurali della zona. Nello stesso tempo veniva raggiunto un importante accordo fra tutti i detentori di diritti signorili nel territorio fabrianese e gli uomini del nucleo urbano, un accordo non più fondato sulle consuetudini feudali ma sulla validità della norma pattuita. Rinaldo e Alberico di Rodolfo Chiavelli furono i primi fra i signori a sottoscrivere l’atto, consolidando così il legame fra la casata e la città. Ed è infatti attraverso l’assidua presenza di numerosi esponenti della famiglia nelle istituzioni cittadine che passò il progressivo rafforzamento politico dei Chiavelli a Fabriano nel Due e nel Trecento: alcuni membri vennero eletti consoli, altri podestà, altri ancora rappresentanti per importanti ambascerie.

 

Capitani di ventura

 

Nei numerosi scontri fra guelfi e ghibellini durante la prima metà del Trecento i Chiavelli furono una delle famiglie marchigiane più impegnate a creare disordini e ad agitare la violenza. Tommaso di Alberghetto, impostosi nel 1325 come gonfaloniere e difensore del popolo di Fabriano, spadroneggiò in città e avversò con ogni mezzo l’autorità della Chiesa avignonese, prendendo con decisione le parti dell’antipapa Niccolò V. Qualche anno più tardi suo figlio Alberghetto II era eletto vicario imperiale da Ludovico il Bavaro e, combattendo sotto le insegne imperiali, mise a ferro e fuoco molti centri delle Marche: nella conquista di Roccacontrada, l’odierna Arcevia, allora castello fedele al Papato, fece infatti trucidare molti uomini. Le sue imprese gli valsero ben presto la scomunica e la dichiarazione di ribelle alla Chiesa, ma per ragioni di opportunismo politico decise poi di venire di nuovo a patti con il governo pontificio. Il reiterato passaggio da uno schieramento politico a quello avverso valse ad Alberghetto una serie di condanne e assoluzioni come pochi seppero collezionare in quell’epoca di feroci scontri politici e ininterrotte guerre. L’esercizio delle armi rappresentava per i Chiavelli un’attività redditizia che ben si addiceva alla loro ascendenza signorile. Nel 1215 Alberto di Rinaldo riceveva dal Comune di Assisi una quietanza di pagamento per il servizio militare reso a cavallo nella guerra contro Perugia: una delle tante guerricciole fra Comuni vicini divenuta famosa per il fatto che fra i prigionieri assisiati a Collestrada c’era anche un giovane di nome Francesco, rimasto profondamente segnato da quella esperienza. Oltre un secolo e mezzo più tardi fra tre e quattrocento, Chiavello e Tommaso di Guido Napoletano svolgevano la professione di capitani di ventura al servizio delle grandi potenze dell’Italia settentrionale: la signoria viscontea e la Repubblica di Venezia.

 

Industriali della carta

 

Nulla di originale, tuttavia. L’esercizio delle armi costituiva infatti l’attività più comunemente praticata da molti signori dell’Italia tardomedievale per poter ottenere facili guadagni. Quello che invece contraddistingueva i Chiavelli da tutti gli altri era uno spiccato senso per gli affari, un fine spirito imprenditoriale proteso verso la produzione artigianale e i commerci, raramente riscontrabile in una famiglia di origine signorile. Nel Basso Medioevo Fabriano si era andata rapidamente trasformando in un dinamico centro produttivo specializzato nella lavorazione del ferro, della lana e del cuoio. Ma il settore di punta era costituito dall’industria cartaria che esportava in grandi quantità il pregiato prodotto finito sui mercati di mezza Europa: nel XIV secolo le rive dell’impetuoso torrente che divideva in due l’abitato andarono progressivamente costellandosi di gualchiere per la carta. I Chiavelli, grazie alla loro intraprendenza economica, non mancarono di approfittarne e di trarre lauti guadagni dall’industria cartaria. Ecco dunque nel 1349 Guido Napolitano investire cospicue somme in varie società mercantili: una per il commercio della lana, una per quello delle conce, una per quello delle selle; dieci anni più tardi Guido acquistava due gualchiere per produrre la carta alle porte della città. Nell’anno 1400, suo fratello Gualtiero disponeva in punto di morte di donare alla chiesa di S. Caterina in Fabriano i due terzi del suo patrimonio immobiliare, fra cui un mulino con due macine per fare la carta.

 

Le basi della stabilità

 

Qualche tempo dopo, Chiavello, figlio di Guido Napolitano affidava un’elemosina annua di 25 fiorini d’oro a un’altra chiesa urbana, quella di S. Lucia, eletta dal casato come luogo di sepoltura: la cifra sarebbe stata dedotta dal reddito di alcune delle numerose gualchiere per la carta possedute dalla famiglia. Il prestigio politico, il valore militare e i grandi patrimoni accumulati dalla famiglia costituiscono nel secondo Trecento le basi per rendere stabile la signoria cittadina dei Chiavelli. Nel 1393 Guido Napolitano riceveva da papa Bonifacio IX la nomina di vicario apostolico, fatto che sanzionava il riconoscimento formale del suo governo su Fabriano. Si inaugurava così uno dei periodi più floridi nella storia della famiglia: nel primo Quattrocento, sotto il dominio chiavellesco, Fabriano ospitava 24 cavalieri armati, altrettanti dottori in legge e sette eccellenti medici. I Chiavelli avevano intanto eretto un palazzo nella piazza maggiore della città, mentre nella frequentata piazza del mercato si allineavano le loro botteghe e officine per la lavorazione della lana e del cuoio. Le chiese urbane e gli edifici pubblici venivano abbelliti e ornati di opere d’arte commissionate da vari esponenti della famiglia. Nel 1415, quasi a compimento del processo di ascesa familiare, Tommaso promulgava nuovi statuti per la città: la raccolta di leggi, che fino ad allora aveva costituito il più alto simbolo dell’autonomia cittadina, veniva ora emanata “ad onore ed esaltazione del magnifico signore e dei suoi figli”, così come si può leggere nel proemio del testo. Un potere destinato a durare ancora per molto? Il precipitare degli avvenimenti che seguirono ci insegna che non fu così. L’autorità dei Chiavelli riceveva larghi consensi fra il popolo minuto e i piccoli artigiani, che mal sopportavano la rigidità degli ordinamenti corporativi e la speculazione dei ricchi mercanti cittadini. Questi ultimi, tuttavia, si sentivano limitati nei loro interessi economici dal regime instaurato dai Chiavelli, teso a comprimere il ruolo politico delle arti maggiori.

 

Messa di sangue

 

L’avversione alla signoria culminò nel 1435 nell’organizzazione di uno spietato eccidio di tutti i componenti della famiglia. Un’antica narrazione dei fatti conserva ancora intatte le tinte fosche che caratterizzarono l’efferata esecuzione. Il giorno dell’Ascensione di quell’anno una quindicina di congiurati entrò nella chiesa di S. Venanzo, ove i Chiavelli erano radunati per assistere il rito della Messa. Il piano d’azione era già stato predisposto alla perfezione, tuttavia la sacralità del luogo induceva i congiurati a esitare: mentre veniva cantato il Credo uno di essi si mosse come a chiedere il perché della generale reticenza ad agire, ma gli altri accolsero quel gesto come un segnale. Fu così che si levarono le grida d’attacco e vennero sfoderati i coltelli: in un battibaleno trovarono la morte con inaudita ferocia Tommaso Chiavelli, suo figlio Battista e otto suoi nipoti, sei dei quali, tutti figli di Battista, ancora in tenera età. Alcuni dei bambini vennero inseguiti e sgozzati in sagrestia, mentre altri furono raggiunti più tardi nel palazzo, strappati dal petto della nutrice e scaraventati con forza contro il muro. Soltanto le donne della casata furono risparmiate nella strage, anche se private dei loro beni dotali ed esiliate. Una carneficina poneva così fine alla storia di una famiglia che per due secoli aveva retto le sorti della città di Fabriano, assicurandole una larga prosperità economica.

 

Tratto da “Medioevo. Un passato da riscoprire” – Milano, Luglio 2002

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lo stemma della famiglia Chiavelli

(abside della chiesa di S. Lucia)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il centro storico di Fabriano

(luogo in cui era palazzo Chiavelli)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cartiera fabrianese

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Statuto Chiavellesco (1415)


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