Appunti
Storici ed Artistici su
Fabriano
nel Medioevo
di
Fabio Marcelli
La storia della città di Fabriano, usando questo
termine nell'accezione di comunità organizzata secondo propri
ordinamenti, è relativamente recente, considerato che l'insediamento
si sviluppò più lentamente rispetto alle altre realtà italiane,
visto che il sito attuale, incastonato in un alveo tra le
colline e le montagne dell'Appennino umbro-marchigiano e quindi
esposto ad ogni tipo di minaccia esterna, non consigliava certamente,
nei secoli che semplicisticamente si definiscono più 'oscuri',
l'abbandono degli arroccamenti sui crinali limitrofi.
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Fabriano, Palazzo del Podestà |
Solo dalla fine dell' XI secolo, infatti, si possono
datare i primi massicci movimenti di discesa a valle delle genti,
mentre si dovrà aspettare circa un secolo perché anche Fabriano si
doti di ordinamenti autonomi, dando origine ad un Comune che, come
efficacemente sintetizzato da Jean Claude Maire Viguer, nasceva da un
'patto sociale' tra i nobili feudatari dei castelli, che accettarono
di svincolare la popolazione dal loro controllo e quest'ultima che,
giustamente, rivendicava nuove e più ampie risorse di sviluppo, pur
riconoscendo ancora ai boni homines alcuni privilegi personali.
La storia successiva del Comune è quindi la
testimonianza di un percorso volto alla conquista di nuovi spazi
produttivi e territoriali, orientato in particolare, per quanto
riguarda il secondo aspetto, ad "inurbare" i vari feudatari
dei castelli limitrofi in modo da contenere possibili minacce
provenienti dall'esterno.
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La metà del Duecento segna indubbiamente il punto
culminante di questa prima fase dello sviluppo civico, simboleggiato
nel 1253 dal trasferimento della fonte battesimale dalla vicina pieve
di Attiggio, già municipio romano, alla nuova Cattedrale, nonché, ed
è certamente l'emblema più fulgido di questa stagione, dalla
costruzione del Palazzo del Podestà, nel 1255, al quale fece seguito,
nel 1285, la fontana maggiore, detta anche "Sturinalto",
esemplata dall'architetto perugino Jacopo di Grondolo, su modello di
quella della città umbra.
Un riflesso quanto mai intrigante di questa temperie
si può ammirare osservando gli affreschi dipinti sul voltone del
Palazzo suddetto, realizzati probabilmente a distanza di poco tempo
dalla fondazione dell'edificio, i quali, non a caso, sviluppano il
tema delle alterne vicende del destino umano, con la raffigurazione
allegorica della Ruota della Fortuna che campeggia accanto a
due guerrieri; l'uno prostrato, implorante in ginocchio, l'altro
imperante, con la spada sguainata della vittoria, un chiaro emblema
delle fortune che, proprio negli anni in cui furono realizzati i
dipinti, arridevano alle imprese militari del Comune.
Come accaduto in tutta l'Europa inoltre, un coagulo
essenziale alla costruzione della civitatis, al consolidamento
delle trame sociali fondate su di un rapporto più vivo ed intenso con
la religiosità e le stesse istituzioni, fu l'azione pastorale urbana
degli ordini mendicanti e non a caso, per testimoniare tale assunto,
basterà ricordare come a partire dal 1292 si avviò la fondazione del
nuovo convento dei francescani accanto alla platea magna, cuore
politico della città, una scelta che in Italia, a tale data, trova
pochi esempi, considerato che i conventi dei mendicanti venivano
solitamente edificati ai margini del nucleo urbano, per poi essere
inurbati con la stratificazione dei processi di espansione.
La scure implacabile del tempo, purtroppo, ha
cancellato la quasi totalità di quanto nel Duecento era stato
realizzato per ornare gli edifici di questa città, anche se tale
perdita è stata in qualche modo compensata ai nostri occhi ignari del
passato, grazie agli affreschi staccati dal convento degli
agostiniani, dipinti da un artista intento a dialogare con vari
momenti culturali, come il vigore espressivo unito alla cifra
bizantina delle opere assisiati di Cimabue, od ancora con la cultura
romana - ed in particolare i suoi riflessi abruzzesi - elementi che
hanno giustamente indirizzato la critica a valutare questi dipinti tra
le testimonianze più importanti della seconda metà del Duecento
nelle Marche.
Ma è proprio osservando questi affreschi che
possiamo leggere un'intensa pagina di storia della comunità
agostiniana fabrianese, inserita in quelle che sono le più ampie
vicende civili del territorio, un'ulteriore conferma, si potrebbe
sottolineare, del valore dell'opera d'arte quale testimonianza sempre
viva nei secoli, della stagione politica e sociale, ma anche delle
emozioni degli uomini che ne hanno promosso la realizzazione.
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Negli affreschi suddetti si può evidenziare la più
antica testimonianza iconografica di uno tra i più noti santi
pellegrini in Terrasanta ed a Compostela, ovvero Guglielmo da
Malavalle, al quale gli agostiniani erano molto legati, non senza
dimenticare, nella scena di SantAgostino che dona la Regola, l'allegoria
della fondazione di quest'ordine (avvenuta nel 1256) e non abbiamo
certo difficoltà ad immaginare, elemento che rende ancor più
intriganti i dipinti in esame, come alla data in cui fu commissionata
questa decorazione - intorno al 1280 circa - qualche frate del
convento fabrianese dovesse avere ancora ben vive le emozioni vissute
direttamente in quel grande, unico, momento della storia dei veri
figli di sant'Agostino.
Rimandando alle schede di catalogo il doveroso
approfondimento storico ed iconografico necessario per la comprensione
di questi affreschi, il passo è ormai breve per giungere al Trecento,
un secolo i cui anni iniziali, ed in particolare il 1305, per la
popolazione e le istituzioni della Marca Anconitana, non furono certo
generosi di fausti presagi.
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Maestro
di Sant'Agostino
S.Agostino
consegna la regola agli eremiti
Fabriano,
Pinacoteca Civica "B.Molajoli"
seconda
metà XIII secolo
già
nel convento di Sant'Agostino |

Fabriano, centro storico |
L'elezione di Bertrand de Got alla Cattedra di
Pietro, con il titolo di Clemente V, era infatti destinata a dare
inizio alla controversa stagione durata sette decenni, che si è
soliti presentare come la "cattività avignonese" del
papato, una disfatta che invitò le nobili famiglie filoimperiali o
ghibelline, che dir si voglia, ad un lauto banchetto sui comuni
marchigiani, dando libero sfogo a tutti i loro appetiti sui
possedimenti pontifici, invero, fino a quel momento tutt'altro che
celati.
Un'ulteriore disgrazia doveva poi colpire in
quell'anno tutta la comunità religiosa della Regione, ovvero la morte
di Nicola da Tolentino, frate agostiniano, che per merito delle sue
prediche, delle irreprensibili abitudini di vita, ma soprattutto delle
molte guarigioni, era indubbiamente il faro più luminoso della
spiritualità in quegli anni, al quale tutti gli abitanti della Marca
guardavano con indefessa devozione.
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Anche l'operosa Fabriano non era certo immune da
questo vento di burrasca politica e non a caso, nel 1308, la famiglia
ghibellina dei Chiavelli iniziava a prepararsi per sferrare l'attacco
alle istituzioni della città, esploso drammaticamente nel 1310,
quando l'impotente governatore della Marca poteva solo condannare
all'interdetto i ribelli, per aver causato "tumulto, sedizione e
scandalo".
Durante il secondo e terzo decennio del Trecento,
quando la città divenne uno dei più forti baluardi della fazione
antipapale nella Marca, solo la grande comunità degli Agostiniani
sembrò resistere alla tentazione di giungere a patti con il governo
ghibellino e non a caso, dopo il 1328, quando si verificò il
fallimento dei progetti egemonici di Ludovico il Bavaro e
dell'antipapa Nicolò V, solo gli eremitani, a Fabriano, si salvarono
dagli strali dell'interdetto pontificio di Giovanni XXII.
La produzione figurativa, quale immediato ed
efficace mezzo di propaganda, dovette rivestire un ruolo di primaria
importanza per ricompattare la popolazione intorno all'ortodossia
papale e basti rammentare, in quest'ottica, l'imponente decorazione
del Cappellone di San Nicola, nell'omonima basilica tolentinate, della
quale gli studiosi hanno evidenziato il ruolo essenziale per
ricompattare la popolazione della Marca intorno alla Chiesa.
Sulla base di quanto appena scritto dovremmo allora
varcare la soglia della chiesa agostiniana di Fabriano, Santa Maria
Nova, per ammirare la decorazione delle due cappelle gotiche ai lati
del coro, esempio che ci offre anche il degno incipit per introdurre
la riflessione sullo sviluppo della cultura figurativa locale agli
inizi del Trecento.
Esemplate sulla Leggenda Aurea scritta di
Jacopo da Varagine, le due cappelle presentano le storie della vita
di Santa Maria Maddalena e di SantAgostino e proprio in
quest'ultimo gruppo di scene, caratterizzate dalla larga profusione
nella descrizione di miracoli ascritti al vescovo d'Ippona (un caso
peculiare nell'ambito dei cicli agostiniani trecenteschi tuttora
conservatisi), si può trovare la conferma di quanto sopra affermato
rispetto alla valenza politica di questa decorazione.
Ad esempio, le azioni di Agostino contro il demonio,
o in opposizione ai soprusi dell'ingiustizia terrena (Sant'Agostino
libera il prigioniero dei Malaspina di Pavia) visibili sulle pareti
fabrianesi, miravano chiaramente ad esaltare le virtù taumaturgiche
del Santo, rispetto alla sua più consueta immagine dottorale,
stimolandone la devozione popolare, ma anche incutendo nei fedeli la
doverosa soggezione nei confronti di tutti coloro che si fossero
macchiati di eresia politica, o comunque avessero assecondato i
soprusi perpretati dai ghibellini.
Interessandoci poi, dopo questa utile parentesi,
della cultura figurativa espressa in città agli inizi del Trecento,
il nostro sguardo non potrà che orientarsi verso il 'faro' del
cantiere della basilica assisiate di San Francesco. Intimamente devoto alla plasticità di Giotto si
dichiara, infatti, l'ignoto autore della Maestà e santi staccata
dall'Abbazia di Sant'Emiliano, realizzata intorno al secondo decennio
del Trecento ed al cui intervento, con apporti di bottega spetta anche
la decorazione agostiniana fabrianese.
Giottesca, intendendo in quest’ottica anche gli
esempi dei seguaci a lui più intimi, come il Maestro della Santa
Cecilia, è la definizione degli atteggiamenti e della tenera e
misurata espressività dei personaggi del Maestro di Sant'Emiliano,
per non tacere dell' impianto architettonico, mentre nel caso degli
affreschi di Sant'Agostino l'ignoto artista non manca di prodursi in
citazioni letterali, come quelle dalla Cappella della Maddalena nella
Basilica Inferiore, raggiungendo brani di delicata eleganza.
A fronte dell'assenza quasi totale di riferimenti
documentari disponibili sulle imprese pittoriche fabrianesi nella
prima metà del Trecento, la nostra riflessione dovrà procedere, con
tutte le incognite del caso, lungo i binari dell'analisi stilistica,
cercando, per quello che ci interessa in questa sede, di individuare
il senso di una comunione tra l'evoluzione politica e sociale nella
realtà fabrianese e le sue manifestazioni artistiche. La linea di
continuità lungo il tracciato giottesco è rappresentata, dopo il
Maestro di Sant'Emiliano, dalla personalità del Maestro
dell'Incoronazione di Urbino e da quella dell'intrigante Maestro di
Campodonico, approssimandoci, quindi, con l'attività di quest'ultimo
alla metà del Trecento.
Nelle opere fabrianesi, ora disperse, del Maestro
dell'Incoronazione, possiamo verificare come questo pittore, muovendo
da un substrato culturale di stretta derivazione assisiate, allargò i
propri orizzonti anche agli apporti della schiera dei pittori
giotteschi di origine riminese, variamente attivi sul versante
adriatico, assorbendone la vena più intimamente espressiva, in
particolare attraverso l'esempio di Pietro da Rimini e Giovanni
Baronzio. Da quanto si è fin qui brevemente accennato, abbiamo
tracciato l'immagine di una città impegnata in un intenso dialogo con
le realtà culturali limitrofe e non poteva essere altrimenti,
considerato che la 'città della carta' era indubbiamente uno dei
capisaldi nell'ambito delle relazioni politiche, economiche e sociali,
che legavano la costa ai grandi centri dell'entroterra umbro.
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Ma un'altra figura nata sulla via che collegava
Fabriano ad Assisi è anche il già citato Maestro di Campodonico. Artista del quale la letteratura critica ha sempre
esaltato l'intenso vigore espressivo, questo pittore afferma in modo
quanto mai intrigante la sua devozione all'assisiate Puccio Capanna,
del quale dimostra di apprezzare l'imponente vigore plastico delle
figure ed i superbi accenti luministici questi ultimi, in grado di
scolpire magistralmente le forme del corpo, contribuendo anche ad
inasprire le caratterizzazioni fisionomiche dei volti visibili nei
dipinti del Maestro di Campodonico.
Il Maestro di Campodonico nella sua opera diviene
uno degli interpreti più alti ed intriganti del pathos emotivo
sprizzante dai fermenti della religiosità popolare, una spiritualità
che all'epoca della realizzazione dei dipinti si manifestava
attraverso i componimenti poetici delle laudi e trovava la sua prima,
intensa, espressione visuale, nelle sacre rappresentazioni inscenate
durante la Settimana Santa e delle quali la pittura è una
testimonianza fedele di quanto poteva accadere in realtà durante tali
occasioni.
Ancor più facilmente degli artisti, lungo le
tortuose vie di comunicazione, si diffondevano in modo capillare le
copie delle laudi nonché i racconti orali delle rappresentazioni,
offrendo al pittore una fonte di interpretazione dell'evento
religioso, non solo legata all'espressione dell'emotività personale,
ma anche ad un 'sentire comune', in grado di valicare le aspre alture
dell'Appennino.
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E' doveroso allora, in quest'ottica, uno sguardo
alla realtà delle confraternite che, per loro stessa vocazione,
costituivano il punto di unione più intimo tra la popolazione e le
istituzioni religiose. Associazioni di laici pronti non solo a vivere nella
maniera più intensa il mistero della fede, ma ad agire concretamente
nel sociale soprattutto attraverso la pubblica assistenza, queste
istituzioni, naturalmente, erano anche impegnate nella committenza di
opere d'arte, ed anzi, proprio nella figura di un pittore documentato
negli stessi anni del Maestro di Campodonico, tale Bartoluccio da
Fabriano, amministratore della più importante compagnia cittadina,
quella di Santa Maria del Mercato, che raccoglieva tutti i membri
della nobiltà cittadina, può essere individuato, crediamo, sulla
base di vari indizi documentari, il nome del Maestro di Campodonico.
Questo pittore segna poi la linea di spartiacque per
la comprensione della seconda stagione vissuta dalla cultura
figurativa cittadina nel Trecento, ovvero, quella legata alla figura
di Allegretto Nuzi e di conseguenza, all'ampia attività della sua
bottega.
La formazione di Allegretto va letta in rapporto al
substrato locale che ne plasmò la personalità ed in quest'ottica, il
rapporto tra le opere giovanili del Nuzi (come la Crocifissione nella
sagrestia di Santa Lucia) e quelle del Maestro di Campodonico, è
stringente, fino ad assumere una dimensione che supera i confini di
una generica ammirazione a posteriori, considerato che il dipinto che
è probabilmente considerato come l'opera più antica conservatasi del
Nuzi (una grande figura di S. Giovanni Evangelista), completamente
ignorata dalla critica recente, dovette far parte della medesima
campagna decorativa che vide all'opera anche il Maestro di Campodonico
nell'oratorio di Santa Maria Maddalena.
Allegretto, anch'egli membro ed amministratore
influente della stessa confraternita di Bartoluccio, nel 1346 risulta
essere documentato a Firenze, fece un'esperienza fugace destinata a
concludersi certamente entro un anno e mezzo circa, considerato che
nel 1346 a Firenze il pittore non dovette trovare molti spazi per la
sua attività, visto che proprio in quell'anno i consigli della
municipalità promulgarono una legislazione molto restrittiva nei
confronti dei lavoratori stranieri, ed ovviamente anche Allegretto
venne inserito in quell'anno nella lista dei lavoratori soggetti alle
limitazioni dei diritti politici.
E' altresì passata inosservata la notizia che nel
1346 un concittadino di Nuzi, tale Francesco Andreucci, occupò la
carica di Vicario del podestà di Firenze e non è improbabile quindi
che il pittore sia giunto nella città toscana come membro della
familias dell'Andreucci, per poi rientrare a Fabriano alla fine
del mandato amministrativo del suddetto.
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Puccio
di Simone,
Sant'Antonio
Abate tra i devoti
(1353)
Fabriano,
Pinacoteca Civica "B.Molajoli" |
Ma se il linguaggio espressivo del Nuzi è attento
alle esperienze più mature della scuola fiorentina, come quelle
stimolate dalla personalità di Andrea Orcagna o di Nardo di Cione,
nasce allora l'esigenza di immaginare una successiva frequentazione
toscana del pittore, ed in quest'ottica va valutato il rapporto tra
Allegretto e Puccio di Simone, uno dei più noti allievi del Daddi.
Il Nuzi, a partire dal 1353, quando risulta iscritto
nelle matricole dei pittori di Firenze, potrebbe aver operato nella
bottega di Puccio, come ipotizzabile valutando la collaborazione
d’Allegretto individuabile nel trittico licenziato nel 1354 dal
pittore fiorentino per il Convento fabrianese di Sant'Antonio fuori
porta Pisana (Washington, National Gallery). Al fabrianese spetta la
realizzazione della figura del santo titolare del convento, in uno dei
pannelli laterali.
Sembra infatti poco probabile che Puccio abbia
potuto abbandonare la ricca Firenze per trasferirsi nella provinciale
Fabriano, rimanendovi almeno sei anni, dal 1348 al 1354, come invece
sostenuto negli interventi più recenti sulla pittura fabrianese del
Trecento mentre, invece, Allegretto avrebbe potuto costituire un
efficace tramite per far giungere da Firenze a Fabriano, oltre alla
tavola suddetta, anche il Sant'Antonio Abate, dipinto da Puccio
di Simone, sempre per l'omonimo convento fabrianese.
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Un altro dato ci conferma indirettamente inoltre,
come già nel 1352, il Nuzi fosse assente da Fabriano o parimenti non
avesse ancora conquistato l'egemonia artistica, se per decorare la
Cappella dei Chiavelli nella Chiesa di San Francesco, venne chiamato
in quell'anno tale Luca d'Assisi.
Naturalmente, non sappiamo la durata di questa
esperienza fiorentina, certo è che sui documenti fabrianesi non si
trova traccia del Nuzi tra il 1350 e il 1363, mentre la ricostruzione
nel 1354 della danneggiatissima edicola di via San Filippo, non è
supportata da elementi di sicurezza.
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Uno sguardo sugli eventi politici fabrianesi ci
ricorda come questi anni furono particolarmente travagliati per la
città, se la discesa del cardinale spagnolo Egidio Albornoz aveva
opportunamente consigliato ai Chiavelli di ravvicinarsi alla Chiesa
nel 1354, pur di conservare il potere, solo dal 1367, dopo altre due
insurrezioni popolari contro di loro, gli stessi poterono beneficiare
di una certa tranquillità interna.
La Descriptio Marchiae, redatta in questi
anni, dimostra come la città, a fronte dell'instabilità politica,
godesse comunque di un diffuso benessere dovuto ai commerci di carta,
tanto da risultare seconda, per capacità contributiva alla Camera
Apostolica, solo ad Ancona, Ascoli e Fermo.
Sul fronte urbanistico questa ricchezza stimolò
ovviamente anche l'edilizia e di conseguenza la committenza artistica. Nel 1363 vengono avviati i lavori per ampliare la
Cattedrale, che un documento dello stesso anno ricorda bisognosa di
interventi urgenti, ed ugualmente abbiamo la certezza che dopo due
anni i lavori erano ben lungi dall'essere portati a compimento, viste
le forti somme di denaro impegnate dal capitolo nel 1365. Sempre in
quell'anno venne completata la Chiesa domenicana di Santa Lucia
Novella e già quattro anni più tardi i Chiavelli vi elessero la loro
sepoltura.
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Fabriano,
Cappella di
San
Lorenzo nella
Cattedrale
di San Venanzio,
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Sarebbe superfluo sottolineare come proprio in
queste chiese il Nuzi venne chiamato con la sua bottega a coronare con
due grandi cicli la conclusione dei lavori, affrescando la Cappella di
San Lorenzo in Cattedrale e quella di Sant'Orsola e la sagrestia in
Santa Lucia.
La stagione della maturità nuziana è
caratterizzata da una cifra stilistica dominata da figure immerse nei
bagliori dell'oro steso sulle tavole, ravvivate anche dalla fantasiosa
ed articolata bulinatura dei nimbi; le vesti, finemente decorate da un
universo di tralci di vite, pappagalli ed altri motivi fitomorfi,
ammantano, invece, corpi evanescenti, lontani da ogni minima
definizione plastica. Il "trionfante decorativismo" del Nuzi,
per usare le parole del Marabottini, sembra nascere da una cosciente
irrealtà, ma lo sfarzo d’Allegretto sottende anche l'esaltazione
della disponibilità di una ricca borghesia mercantile che, attraverso
le immagini votive, poteva estasiarsi abbagliata dai riflessi aurei.
Uno stile che, senza volontà denigratorie, si può
definire anche 'provinciale', qualora si valuti la distonia esistente
con la ricerca verso la 'pittura della realtà' che, in quegli stessi
anni, si stava avviando a grandi passi verso l'elegante narrativa
espressa nei dipinti realizzati nella stagione del cosiddetto Gotico
Internazionale, un gusto espressivo, quest'ultimo, che ha trovato in
un altro fabrianese, Gentile, uno degli interpreti più alti
nell'intero panorama europeo.
Nel 1378, intanto, Guido Chiavelli, approfittando
dell'aiuto dei perugini, conquisterà defìnitivamente con la forza
delle armi il dominio sulla città, ed alla Chiesa, come in altri casi
analoghi, non resterà altra possibilità che legittimare la
situazione di fatto, attraverso la concessione del vicariato
apostolico. La statura politica di Chiavelli non differisce di
molto dagli altri signori umbro-marchigiani. Si è infatti osservato
come per quasi due secoli gli stessi abbiano cercato di approfittare
della loro potenza per conquistare, seppur con alterne vicende,
posizioni egemoniche, ed il loro successo s’inserì pienamente nel
processo di riorganizzazione degli equilibri territoriali guidato, nel
caso specifico, dalla regia della famiglia Visconti, duchi di Milano. I Chiavelli per garantirsi una fonte di guadagno
continueranno ad esercitare la consueta attività di condottieri, ed
emblematico è il caso di Chiavello, prima al servizio di Giangaleazzo
Visconti e poi, alla morte di questi, nel 1402, per la Repubblica di
Venezia.
Nella politica interna fabrianese il nuovo regime
non determinò certo grossi mutamenti, ad eccezione della stabilità
amministrativa. I floridi commerci di carta garantivano da oltre
cinquant'anni il benessere cittadino e questa tendenza continuò anche
sotto il dominio signorile senza variazioni rilevanti. Così come gli stessi non incrementarono i domini
territoriali della città, nell'impossibilità di sostenere il
confronto con i più potenti Varano di Camerino o Montefeltro di
Urbino.
In sintesi, Fabriano entrò nelle maglie di una
trama che fino alla fine del quarto decennio del XV secolo legò
indissolubilmente queste grandi e al contempo 'fragili' Signorie,
attraverso alleanze cementate sia da oculate politiche matrimoniali
che dalla stessa Chiesa. Della politica culturale dei Chiavelli sappiamo ben
poco, certamente la letteratura sul ruolo di questi nella committenza
artistica ha ampiamente esaltato le loro doti intellettuali,
vantandone gli allori letterari. Anche se molta di questa promozione,
crediamo, si deve anche alla figura di Gentile, ambasciatore
inconsapevole nei secoli successivi delle fortune di questa famiglia. Indubbiamente i Chiavelli potrebbero aver favorito
la formazione lombarda di Gentile, grazie al loro rapporto con i
Visconti, ma è altrettanto evidente, almeno giudicando dalle
testimonianze rimaste, che gli stessi durante il loro dominio non
costruirono una corte paragonabile, ad esempio, a quella dei Trinci di
Foligno.
Senza qui voler sminuire la statura culturale dei
Chiavelli, va comunque sottolineato in loro favore che, in questi anni
dominati dal gusto fiorito la città potè vantare almeno un'opera di
alcuni degli esponenti principali del Gotico Internazionale
umbro-marchigiano, ovvero, Lorenzo Salimbeni, Ottaviano Nelli e
Giovanni di Corraduccio, ma accanto a questi illustri forestieri, non
mancò la continuità nelle botteghe locali, come quella di
Franceschino di Cecco, al quale, crediamo, va restituita la Madonna
dell'Umiltà, firmata nel 1394 da FRANC ... US DE FABRIANI (Gallarate,
coll. Carminati), sempre assegnata al quasi omonimo Francescuccio di
Cecco Ghissi (Donnini 1995), sebbene in evidente contrasto stilistico
con le opere attribuite a quest'ultimo.
Fabriano va quindi inserita a pieno diritto tra i
punti cardinali del Gotico Internazionale umbro-marchigiano, insieme a
Gubbio, Foligno, Sanseverino e Urbino, meta obbligata per la
formazione e l'aggiornamento dei maestri indigeni, intorno ai dettami
del 'linguaggio cortese' diffuso dalle opere di Gentile presenti nella
terra natia.
Ed emblematico, in quest'ottica, è il caso della Maestà
e santi dipinta dal Nelli in un'edicola della Chiesa di Santa
Maria del Piangato a Fabriano, opera che va ricordata tra i primi
numeri del catalogo dell'eugubino e che testimonia l'attenzione
riservata dal giovane Ottaviano, al maestoso polittico di Valleremita,
dipinto da Gentile intorno al 1405 circa per il vicino convento
osservante di Santa Maria di Valdisasso. Un affresco del Nelli costituisce poi una
testimonianza intrigante per avviare il discorso, appena accennato,
relativo alla committenza, considerato che la sua realizzazione fu
richiesta espressamente da un importante mercante di carta, Niccolò
di Filippo di Ciuccio, che dal 1400 reggeva il giuspatronato della
chiesa fabrianese.
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L'arme
dei Chiavelli |
Si presenta, davanti a noi, una strada ancora
ignorata dalla ricerca, sicuramente più ostica ed ingrata delle altre
possibili, anche se, di fronte al nuovo, la speranza non è spesso
vana. Infatti, bisogna pur sempre considerare che proprio i grandi
mercanti di carta possedevano i grandi patrimoni finanziari, mentre i
Signori erano tradizionalmente legati alle rendite terriere ed anche
se i Chiavelli gestivano delle modeste manifatture di carta, non
potevano certo competere con i guadagni raccolti dai primi lungo rotte
commerciali che da Fabriano giungevano sino in Francia, come
verificabile chiaramente sui rendiconti.
E sulla base di questa
riflessione verrebbe da chiedersi se il committente inginocchiato ai
piedi della Vergine, nella stupenda Madonna di Berlino (Staatliche
Museen) dipinta da Gentile per la chiesa di fabrianese di San Niccolò
o più plausibilmente di Santa Caterina , non possa essere individuato
proprio in un mercante di carta e vari elementi di carattere
documentario potrebbero permetterci, crediamo, di ipotizzare
l'individuazione di questa figura in colui che a Fabriano resse il
monopolio di tale mercatura a partire dall'ottavo decennio del
Trecento, nonché il più ricco cittadino fabrianese dell'epoca
ovvero, Ambrogio di Bonaventura. |
Tornando comunque alle vicende civili della comunità
fabrianese, giungiamo alla data fatidica del 26 maggio del 1435,
quando l'eccidio della famiglia Chiavelli aprì l'ultima stagione del
medioevo fabrianese, indubbiamente la più travagliata ed infelice. Il
passaggio della città, per un decennio, al governo di Francesco
Sforza, contribuì ad aggravare l'instabilità politica, ma
soprattutto il declino sociale ed economico, causato anche
dall'inevitabile diffusione in tutta Europa di nuove manifatture di
carta concorrenziali con Fabriano. Emblematica in tal senso è la
disposizione dello Statuto del 1437, che vietava ai cartai di
collocare le loro manifatture oltre poche miglia dalla cinta muraria,
per evitare la diffusione dei segreti di tale arte.
Se quindi la signoria aveva accompagnato uno dei
momenti di maggior benessere cittadino, come accadde anche in altre
città, questa forma di governo si rivelò ormai troppo antiquata,
rispetto alla nuova esigenza di un riassetto territoriale orientato
alla formazione di più ampi agglomerati statali. Anche le manifestazioni artistiche, come intuibile,
sembrano eclissarsi in questi anni e per quasi un ventennio non si
registra sui documenti la produzione di dipinti.
Solo il soggiorno di Niccolò V che per alcuni mesi,
tra il 1449 e il 1450, trovò rifugio a Fabriano dalla peste scoppiata
a Roma, poté garantire nuova linfa alla città. Illuminanti per
comprendere il clima di degrado vissuto dalla città in questi anni,
sono le parole di Giorgio Vasari che nella Vita di Bernardo
Rossellino, chiamato dal Papa suddetto ad edificare il loggiato di San
Francesco, ricorda lo stato di abbandono della chiesa in cui,
ricordiamo, giusto trent'anni prima aveva trovato spazio anche il
bellissimo stendardo di Gentile (ora diviso fra il Getty Museum di
Malibù e la coll. Magnani Rocca di Traversetolo).
Significativa, per testimoniare questo momento di 'rinascita',
è la consegna, nel 1451, da parte di Antonio da Fabriano, appena
rientrato dal soggiorno genovese, della tavola raffigurante S.
Girolamo nello studio (Baltimora, Walters Art Gallery). Il
dipinto, che costituisce la prova più mirabile offerta dal pittore
marchigiano, è una superba riflessione sui valori prospettici
dell'arte rinascimentale, arricchita dal gusto descrittivo dei maestri
fiamminghi, che Antonio aveva potuto ammirare nel suo soggiorno
ligure, ma anche con un occhio più che attento verso quanto veniva
espresso nella vicina corte dei Montefeltro dalla rigogliosa linfa
espressiva dell'ormai celebre Fra' Carnevale.
Non sembra poi un'informazione superflua ricordare
come la tavola suddetta, della quale fino a questo momento si
conosceva solamente la provenienza dalla collezione fabrianese dei
Fornari, vada associata con elementi di certezza quasi assoluta, al
convento delle terziarie francescane titolato a San Girolamo,
struttura che, unica nella città, proprio nel 1449 aveva goduto di un
particolare beneficio durante il soggiorno del pontefice (Sassi 1961),
ed i cui denari vennero con molta probabilità utilizzati anche per
commissionare l'opera in questione. La figura di Antonio testimonia ulteriormente una
caratteristica peculiare nello sviluppo delle arti figurative a
Fabriano nel Quattrocento ovvero, la presenza di un dialogo stilistico
in parallelo fra tradizione ed innovazione.
A differenza del Trecento possiamo verificare,
infatti, come all'inizio del secolo successivo, accanto alle novità
portate dai maestri itineranti ed in primis,
da Gentile, un pittore operoso stabilmente sul territorio, quale
fu il Maestro di San Verecondo, mantenne comunque ben salde le radici
della formazione personale sui testi trecenteschi, aprendosi solo con
moderazione al gusto 'fiorito'. Un fenomeno, questo appena
evidenziato, che, intorno alla metà del secolo, vedeva ugualmente
affiancata la 'stimolante' pittura di Antonio al tentativo di
riproporre o copiare, che dir si voglia, il dettato gentiliano, del
quale si fece portavoce il Maestro di Staffolo.
Come già evidenziato all'inizio di questo
intervento, le testimonianze artistiche ancora presenti sul territorio
offrirebbero la possibilità di altre intriganti letture, una fra
tutte, quella legata all'individuazione delle molte opere collegabili
alle strutture ospedaliere cittadine, od ancora, e richiederebbe spazi
di approfondimento ben più ampi, quella relativa al ruolo della
superba collezione delle statue lignee dei maestri dei Magi e dei
Beati Becchetti nell'ambito delle sacre rappresentazioni, ma forse, è
veramente giunto il momento di lasciare al lettore di queste note a
margine, l'intrigante emozione insita nella scoperta di quanto non
solo la Pinacoteca, ma ogni luogo di Fabriano, può offrire al
visitatore.
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