Carta e Cartiere nel secolo XIII
di Giampaolo Ballelli
1. ipotesi su come la carta sia giunta a Fabriano analizzando l’urbanistica della città alla fine del secolo XII.
A Fabriano si produce carta da molti secoli, ma come il segreto di questa fabbricazione sia giunto nell’entroterra marchigiano dalla lontana Cina, dove fu inventata tra il primo e il secondo secolo dopo Cristo, è ancora oggetto di studio. La tesi più accreditata sostiene che la conoscenza sia passata attraverso gli scambi commerciali con il mondo arabo, che a sua volta aveva appreso l’arte dalla Cina. Non ci sono prove certe, tuttavia unendo i siti dove i documenti più antichi indicano esserci stata la presenza di una cartiera, si ottiene una linea ideale che potrebbe corrispondere alle tappe del percorso seguito dalla diffusione della carta. Una conoscenza giunta in Andalusia poco dopo il mille, prima con i Califfati Omayyadi, poi con quelli Almoravidi. |
Dal Sud della Spagna arrivò in Italia e poi nel resto d’Europa. A sostenere la tesi di una acquisizione arrivata a Fabriano attraverso il mondo arabo esiste anche un indizio storico urbanistico. Nel secolo XII era sorto un borgo, fuori le mura cittadine, chiamato “saraceno”. Il borgo si trovava nelle vicinanze del monastero dei Padri Agostiniani, complesso che, dopo l’unità d’Italia, fu requisito e trasformato nell'ospedale cittadino. Tra i secoli XI e XIV gli Agostiniani furono molto attivi in terra Santa. I monaci spesso intraprendevano il pellegrinaggio fino a Gerusalemme ed ebbero molti scambi culturali con il mondo arabo. Per questo motivo con tutta probabilità la presenza araba giunse in città con gli agostiniani, stabilendosi nelle vicinanze del loro monastero. Gli arabi nel secolo XII sapevano già produrre la carta ed importarono e diffusero la conoscenza in città. |
Mappa della città di Fabriano alla fine del secolo XII.
(disegno a china su carta di G. Ballelli) - ingrandisci
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Esiste anche un’altra tesi di come il segreto della fabbricazione della carta sia giunto a Fabriano. La vicenda racconta di un uomo di origine slava giunto a Fabriano con tutta la famiglia. L’uomo si stabilì in città ed iniziò a fabbricare carta. La produzione trovò condizioni ideali, fu perfezionata e si diffuse in tutto il centro abitato. Prove che sostengano questa ipotesi non ce ne sono, tuttavia proviamo a fare alcune congetture. I mercanti fabrianesi già ne XII secolo erano molto attivi. Le loro merci viaggiavano lungo le vie commerciali verso il nord ed il sud della penisola, attraversavano gli Appennini giungendo a Roma e dal porto di Ancona solcavano l’Adriatico verso i mercati “del Levante”. I libri di storia, la maggior parte almeno, usano questo termine generico “levante” per indicare genericamente quello che si trova ad Est della penisola Italiana. Non entrano nel merito, quasi che nelle mappe trovassero scritto ad Est del mare Adriatico “hic sunt leones”. In realtà sull’altra sponda dell’Adriatico si trovava un mercato enorme e ricchissimo, quello dell’impero Bizantino. La città di Costantinopoli era una metropoli ricca ed una vera culla di civiltà. Una presenza sottovaluta e quasi ignorata nella storia occidentale. Forse a causa della rivalità millenaria nata con la Pentapoli bizantina ed aggravata dallo scisma del 1054 tra la chiesa di Roma e quella di Costantinopoli, che mai accettò il “primato Petrino”. Forse per l’inconscio desiderio di dimenticare la macchia sulle coscienze dei regni europei occidentali che, accecati da vecchie invidie, lasciarono soli i bizantini nel momento di maggior bisogno. Quando Costantinopoli, assediata da un imponente esercito Ottomano, finì per cadere nelle mani di Maometto II. Gli Ottomani, nel mese di maggio del 1453, saccheggiarono per tre giorni la città distruggendo chiese, opere d’arte e biblioteche. In quella primavera solo un piccolo ed eroico contingente di settecento soldati europei, con a capo i Genovesi, combatté e morì nel grande assedio di Costantinopoli. Fino a quella data l’Impero Romano d’Oriente continuò ad esistere con le sue province, gli efficienti funzionari ed i grandi generali con a capo l’imperatore. Un Impero che si estendeva dalla Dalmazia ad Antiochia e dalla sponda orientale del mar Nero alle coste occidentali dell’Adriatico. Quando nei monasteri occidentali gli amanuensi benedettini copiavano in segreto i “libri proibiti”, nelle università di Costantinopoli Platone, i neo platonici ed Aristotele erano oggetto di studio e di dibattito. |
A Bisanzio si studiava il “De Architectura” di Vitruvio, gli architetti realizzavano opere eccezionali e il diritto romano Giustiniano non solo era il sistema di leggi più avanzato al mondo, ma era stato raccolto in pratici volumi commentati e divisi per argomenti ad uso degli avvocati. Nel XII secolo gli scambi tra le Marche e Costantinopoli erano continui, tanto che l’imperatore bizantino Manuele, nel 1155, mandò una flotta in un porto amico, quello di Ancona. La città Dorica divenne il caposaldo dei Romei per una fortunata campagna militare contro il regno di Roberto il Guiscardo e in poco tempo, grazie anche ai baroni normanni ribelli, conquistò le più importanti città della Puglia. Questo legame tra le Marche e l’opposta sponda del mare Adriatico permetteva ai mercanti italiani di importare prodotti anche dalla lontana Cina. Le merci percorrevano la “via della seta”, un lungo e pericoloso tragitto che attraversava tutta l’Asia centrale e giungeva direttamente a Costantinopoli. |
Analisi urbanistica 1. Fabriano alla fine del secolo XII.
Aggregazioni per ambito religioso. Le parrocchie.
(disegno a china e pennarelli su carta di G. Ballelli)
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La seta in particolare era una enorme fonte di ricchezza tanto che i bizantini riuscirono a rubare il segreto della lavorazione ai cinesi. Narra la leggenda che, nel VI secolo, alcuni monaci ortodossi furono inviati in Cina per conoscere ogni aspetto di quelle terre lontane. Al ritorno portarono con sé, nascosti dentro dei bastoni cavi, alcuni bozzoli del baco da seta e la conoscenza della lavorazione. Giunti a Costantinopoli permisero l’avvio della produzione della seta. Ora se i monaci bizantini riuscirono a rubare il segreto della seta, ovvero di una produzione che assicurava enormi ricavi, è probabile che appresero anche la tecnica di produrre carta che all’epoca aveva risvolti economici limitati e non aveva di fatto controlli. Fabbricazione di seta e carta nel tempo giunsero nelle Marche, forse con i profughi fuggiti dalle tante guerre alle quali bisanzio fu costretta. Ad iniziare dall’ XI secolo l'impero di Costantino era stretto su tutti i lati da nuove potenze militari. I normanni di Roberto il Guiscardo dal mare saccheggiavano le coste occidentali dell’impero, i popoli Russi spingevano da nord est, i Bulgari ed i Serbi da nord, gli Ottomani da sud. |
Analisi urbanistica 2. Fabriano alla fine del secolo XII.
Azzonamento politico culturale.
(disegno a china e pennarelli su carta di G. Ballelli)
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Proprio a causa delle invasioni Ottomane nelle province meridionali dell'impero, poste al confine con la Siria, esuli slavi, “romanizzati e cristianizzati” sotto Bisanzio, fuggirono sull’altra sponda dell’Adriatico. Profughi che viaggiarono lungo la via che i mercanti di Fabriano utilizzavano per portare nel grande mercato “del Levante” i tessuti di lana, le fini pergamene ed il ferro lavorato, ovvero i prodotti per i quali erano già famosi ed apprezzati. Anche per questa ipotesi esiste un indizio storico urbanistico. Nel secolo XII, fuori dalla cerchia muraria della città, sorse un borgo di profughi in località “Valpovera”. Piccole case a schiera su due piani, quelle che si può permettere chi fugge da una guerra. Le abitazioni formarono lunghi fronti urbani costruiti tra due vie. Via “del pisciarello” che correva fuori dalle mura meridionali della città (così chiamata per un piccolo fosso di scolo maleodorante che scorreva al centro della strada) e la via parallela chiamata “Bosima”, ad indicare le origini degli abitanti: slavi e bosniaci. Forse tra quei profughi giunse a Fabriano chi conosceva l’arte di fare la carta. |
2. ricostruzione ideale di una cartiera del secolo XIII
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Ad ogni modo, e qualunque sia stata la via percorsa dal segreto della carta per giungere a Fabriano, il successo commerciale delle cartiere fabrianesi dipese da tre rivoluzionarie innovazioni: la conoscenza del mulino ad acqua di Vitruvio, che forniva l’energia per muovere l’albero a camme che azionava, a sua volta, i magli multipli; la impermeabilizzazione dei fogli con gelatina animale; l'invenzione delle “filigrane”, ovvero dei marchi di fabbrica realizzati lasciando una leggera impronta sul foglio, visibile solo in controluce.
Scrive Franco Mariani: “L’utilizzo di chiodi nelle teste dei magli permise una migliore (più fine) sfibratura degli stracci di lino e canapa, e consenti di ottenere una pasta (polpa) più omogenea.
L’impiego di gelatina animale al posto di farina per la collatura evitò il proliferare di muffe e il conseguente degrado della carta. Nei climi caldi e asciutti dei paesi arabi o del sud della Spagna la collatura con farina non produceva effetti secondari, ma nei nostri territori, a clima umido e temperato, gli amidi si modificavano causando una progressiva distruzione del foglio.” E aggiunge “In realtà c’è un quarto fattore, non meno importante, di successo che è la conseguenza dei tre sopra accennati: il modo di fare la carta proprio dei cartai fabrianesi. Nel XIV e XV secolo molti cartai fabrianesi lasciarono Fabriano e portarono il loro know-how in altri luoghi (Repubblica veneta, Bologna, Italia meridionale, . . . ); in molti contratti di lavoro è chiaramente scritto che il cartaio si impegna, garantisce, di produrre carta “ad usum fabrianensem”, cioè con le stesse tecniche e procedure usate a Fabriano, un metodo che per molto tempo garantirà alla carta di Fabriano (e poi a quella italiana) di essere considerata nei mercati dell’Occidente come qualitativamente superiore: una qualità che le cartiere fabrianesi garantiscono da 750 anni!”.
Una produzione della carta che, con periodi di maggiore o minore fortuna, dura ininterrottamente fino al giorno d’oggi. Abbiamo molte notizie sui procedimenti che, nel secolo XIII, resero possibile questo primato, al contrario poco sappiamo sulle prime cartiere e di come erano costruite. Possiamo tuttavia fare delle ipotesi sulla base di quanto scritto dagli storici. Il Graziosi nel 1733 scrive “Dagli Appennini poi, che sono in questo detto monte Maggio, nasce il piacevole e tranquillo fiume chiamato Giano (...) Che venendo dolcemente verso questa Patria rigando ed inaffiando le Valli danno alle Valchiere, ove fabbricasi la carta bombacina, le quali fuor della Porta del Piano, per strada Romana, per due miglia di paese verso il Castello di Cancelli si numeravano tempo fa fino a 40 para, e nel 1563 fino al numero di 38, tutte composte di belle fabbriche e di vaghi edificij, quali in parte ne furono cangiate in valche ed in Molini ed altre devastate essendone finora solo due conservate per il necessario del luogo a 17 molini quali da macinare grano e due a Olio”.
Da questa descrizione ricaviamo importanti indizi. Le antiche cartiere si disposero tutte lungo il corso del fiume Giano a monte della città, fuori dalla Porta del Piano, verso i monti Appennini dove si trovano le sorgenti del fiume. Questo conferma che per fabbricare una buona carta serve acqua limpida, ma anche ricca di preziosi sali minerali, come quella del Giano. Il fiume Giano è di piccole dimensioni, ma ha una portata abbastanza regolare. Oggi nei mesi caldi e asciutti la portata diminuisce ma, nel medioevo, quando pozzi e captazioni più o meno abusive non esistevano, la quantità di acqua era maggiore garantendo di poter lavorare con continuità per tutto l’anno. Il Giano a monte della città ha poi un'altra caratteristica da non sottovalutare. Essendo un corso d’acqua pedemontano il suo alveo ha una forte pendenza. Per questo motivo le opere per canalizzare l’acqua e portarla all’opificio ad un livello che consenta di farla precipitare sulla ruota del mulino, per metterlo in movimento con sufficiente potenza, richiedono un percorso breve. Questo le rende meno costose sia in fase di realizzazione, sia come manutenzione. Si è potuto constatare negli edifici delle Conce, che si trovano dentro le mura di Fabriano, che l’acqua canalizzata nei vallati medioevali giungeva ad un altezza di circa tre metri sopra il livello del piano terreno dell’edificio. Da questo livello, attraverso una chiusa lungo il canale, regolata da paratoie di legno, l’acqua precipitava sulle pale della ruota idraulica. La ruota trasmetteva il moto direttamente all’albero a camme che azionava i magli. L’acqua poi, per vasi comunicanti, veniva canalizzata nelle vasche di lavorazione ed una volta “esausta” era immessa in un canale che scaricava nel fiume a valle dell’opificio.
Scrive Giancarlo Castagnari: “questi opifici non dovevano disporre di molti locali o grandi spazi, ma certamente erano dotati di uno "spanditoio" dove si stendevano i fogli ad asciugare, e di uno stanzone prossimo ad un corso d'acqua dove erano collocate le pile a magli multipli azionate con l'energia idraulica. Di solito le pile erano due: una per sgrossare gli stracci ed una per raffinate la pasta da carta. A volte si aggiungeva una terza pila per "affiorare" ed ottenere un materiale grezzo tale da produrre carta di prima qualità. Nello stesso stanzone sono collocati il tino con la "pasta" attorno al quale operano il lavorante e il ponitore addetti alla fabbricazione, e le attrezzature necessarie per il collaggio dei fogli. Un altro locale e' adibito alla scelta degli stracci; qui si effettuavano due importanti operazioni denominate nel linguaggio dell'epoca: "arcapatura" e "scrollatura". In ambienti separati chiamati "cambore", quasi sempre ubicati in città, si eseguivano le operazioni di rifinitura: la cialandratura (ossia la lisciatura), la battitura e la scelta dei fogli, la formazione delle risme, la confezione delle balle per la spedizione”.
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Le prime costruzioni, quindi, dovevano essere semplici e funzionali, con molta probabilità si utilizzarono le “gualchiere” per la follatura e l’infiltramento dei tessuti di lana, arte già fiorente a Fabriano nel XII secolo. Realizzare il feltro di lana per i cappelli o per i soprabiti (il moderno Loden) era una lavorazione stagionale, quindi è molto probabile che l’ingegno marchigiano abbia considerato utile ed economico ottimizzare i tempi morti della “gualchiera”. Questi edifici aveva già la ruota idraulica con la pila a magli per battere i tessuti nelle vasche ed acqua in abbondanza. Sembra probabile che si fosse trovato un sistema per cambiare le teste dei magli, sostituendo quelle adatte alla battitura dei tessuti di lana da infeltrire con martelli utili allo sfibramento degli stracci, magari dotati di teste con chiodi per accelerare e migliorare il procedimento per sfibrare gli stracci.
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Ricostruzione ideale di una cartiera secolo XIII.
(disegno a china su carta di G.Ballelli) -
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Castagnari sottolinea anche un’altra particolarità fabrianese. La divisione delle fasi di produzione. Una prima parte della produzione, legata alla creazione della carta, veniva fatta nelle cartiere fuori città. Le operazioni di finitura e confezione in ambienti posti dentro le mura della città le “cambore”. I motivi di questa organizzazione possono essere più di uno, non ultimo quello di trasferire il prodotto realizzato in un luogo sicuro dai furti rispetto ad una “gualchiera” posta fuori città. Questi opifici, anche se realizzati senza fronzoli od inutili ornamenti, richiedevano un notevole investimento per la loro realizzazione. È molto probabile che solo le famiglie nobili od alcune famiglie ricche di mercanti possedessero i capitali necessari per costruire una “gualchiera”. L’opificio era quindi dato “in affitto” ai lavoratori che, con il sudore della fronte e la maestria nel lavoro, pagavano il canone dovuto. Un capitalismo “ante litteram” dove chi metteva il capitale commerciava e sfruttava i lavoratori del settore. Si spiega così anche per quale motivo manca “un livello” necessario alla fabbricazione della carta, quello relativo alla fase di finitura e confezione. Quegli ambienti non erano necessari nella “gualchiera” perché il prodotto veniva acquistato dal mercante direttamente dal produttore, poi, nelle “cambore” di città, veniva rifinito e confezionato aggiungendo un notevole plusvalore prima della vendita. Sembra anche probabile che i mercanti acquistassero da più di un produttore e divenne necessario, per distinguere la quantità e la qualità del prodotto di un cartaio dall’altro, l’uso del marchio in filigrana.
Nelle prime “gualchiere” il numero dei lavoratori non era elevato, l’impresa era solitamente di carattere familiare, con il cartaio quale fulcro dell’impresa. Con la sua bravura il mastro cartaio estraeva dal tino la pasta in sospensione acquosa creando i fogli di carta, tutti di uguale dimensione e peso. Questo requisito, il peso, era difficilissimo da ottenere e solo un cartaio esperto ci riusciva. Il “ponitore” poi metteva il foglio tra i feltri di lana formando delle pile che venivano pressate per togliere la maggior parte dell’acqua in eccesso. Un paio di aiutanti, forse mogli e figli, provvedevano sia alla cernita degli stracci per le vasche di pestaggio, sia alla stesa dei fogli negli stenditoi. Le prime “gualchiere” dovevano sviluppare una superficie tra i cento ed i duecento metri quadri. Un fabbricato di circa otto metri di lato per undici - dodici di lunghezza. Disposto su due livelli fuori terra con altezza variabile tra cinque e sei metri. Non aveva locali interrati, sia perché la vicinanza al fiume poteva causare forti infiltrazioni di acqua ma, soprattutto, per la natura del lavoro. I grossi tini pieni di acqua sono un carico concentrato che mette a dura prova qualsiasi tipo di solaio. Se a questo aggiungiamo le continue vibrazioni generate dai colpi dei magli nelle vasche di pestaggio si capisce bene che solo la trasmissione diretta sul terreno del “combinato disposto” di peso e sollecitazioni poteva garantire che la struttura non cedesse. La muratura portante era costruita con le pietre del posto, calcari e maioliche, i conci migliori e squadrati posti per fare gli angoli, gli altri per il paramento a vista; mentre acciottolati e sassi di fiume, legati con malta di calce, completavano il muro “a sacco”. I mattoni di laterizio rosso realizzati con le argille fabrianesi, che poi caratterizzeranno le maggiori architetture della città, in quel periodo non sono ancora utilizzati. Il muro realizzato con la tecnica “a sacco” ha bisogno di lavorare con spessori di muratura maggiori rispetto alle pareti costruite con pietre squadrate o mattoni. Lo spessore dei muri delle antiche “gualchiere” doveva avere una larghezza tra i i 40 ed i 50 cm. per garantire la necessaria stabilità. L’altro materiale principale nell’opificio era il legno, utilizzato per i travi di tetto e solaio, per gli infissi, i graticci di aerazione dei locali stenditoio, i tavolati di calpestio, la ruota idraulica, l’albero a camme, i meccanismi, i magli, i grossi tini, etc.. etc.. Un'altra caratteristica, che ritroviamo nelle conce cittadine edificate nel XIV secolo, è il pavimento del piano terreno costruito in pendenza, in modo da favorire il travaso di acqua per vasi comunicanti da una vasca all’altra, fino a quella finale che, attraverso una chiusa, scaricava l’acqua sporca nel canale di scarico. Con tutta probabilità anche le antiche cartiere adottarono questo accorgimento. Sempre al piano terreno doveva trovarsi, in posizione centrale rispetto all’ambiente di lavoro, una fornace dove un fuoco sempre acceso faceva bollire l’acqua in grandi pentoloni metallici per le varie lavorazioni. Un ambiente umido, rumoroso, poco illuminato, caldo vicino al fuoco, freddo nel resto dello stanzone. Il piano terreno doveva sembrare un piccolo inferno al confronto con il piano primo destinato alla stesa ed asciugatura dei fogli. Lo stenditoio era un ambiente luminoso, tranquillo ed areato, con i graticci di legno esposti a mezzogiorno che filtravano una morbida luce riflessa dai bianchi fogli di carta fatta a mano. Con buona probabilità erano queste le caratteristiche delle cartiere di Fabriano nel secolo XIII.
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