Quando giorni or sono, mi è stato chiesto di “ricordare” il tragico 11 gennaio ’44, il file della memoria era già aperto e salvato con nome. Emozioni incancellabili della guerra e del dopoguerra di uno “sbardascio seccaigno”, un fardello pesante che sto trasportando da settant’anni.
Lunedì pomeriggio del 10 gennaio ‘44, avevo giocato con Pietro Pecorelli e Torquato Bilei in fondo alla piazza bassa, avanti alle botteghe dei loro genitori, fino all’ora dell’oscuramento notturno. L’appuntamento, per domani, dopo i compiti della scuola. A Torquato, più piccolo di noi, un monelletto tutto pepe, coi riccioli biondi, piaceva giocare alla acchiapparella, rideva quando non riuscivamo a prenderlo.
Martedì undici, serena, fredda giornata, usciti da scuola, dopo pranzo, verso le una e mezza, suonò la sirena dell’allarme aereo, suonava spesso, ma nessuno fuggiva. Però s’avvicinava il rombo cupo degli aerei carichi, era la prima volta che passavano sopra la città dopo il mitragliamento coi picchiatelli, di solito transitavano in formazioni compatte sopra i piani di S.Maria in campo, diretti a Nord. Era la prima volta in pieno giorno che arrivavano e non di notte a tradimento e la gente guardava col naso per aria dalle finestre, dai terrazzi, ma nessuno fuggiva, neanche gli avventori dell’albergo “La campana”. Ebbi il tempo di salire sul tetto di casa della Portella per osservare meglio e vidi la scia di un razzo verde lanciato dal primo aereo della squadriglia, il segnale. Tanti piccoli cosi neri cadevano dal cielo. Poi si aprirono le bocche dell’inferno con esplosioni assordanti, la contrada della Portella tremava come fa col terremoto. Mi precipitai in strada, la gente urlava impazzita, avanti alla chiesetta di san Rocco vedevamo una nuvola densa di fumo e polvere avanzare dalla piazza cosparsa di detriti e corpi spezzati. Da questa nube uscivano impolverati, feriti, impauriti gli abitanti dei palazzi sfuggiti alla strage, urlavano parole senza senso, non ne ricordo nessuna.
Quando la polvere si diradò vedemmo sbalorditi i danni delle bombe. Era la prima volta! Crollata anche una realtà fragile costruita dal regime, gli adulti, quelli che non stavano sotto le armi, sentivano il senso della sconfitta, eravamo completamente indifesi, ormai. Giunsero subito i primi soccorritori, cittadini comuni, poi i pompieri, scavavano con le mani alla ricerca dei sopravvissuti. Col passar delle ore trovarono solo corpi martoriati. 64 morti, 150 feriti e un braccio di ignoto.
La famiglia Pecorelli (bar Mario) ebbe l’abitazione danneggiata, loro tutti salvi per miracolo. Con una corda facevano scendere dalla finestra le poche cose rimaste intatte.
Poi a una cert’ora, i miei parenti caricarono su un carretto abbandonato i materassi e altre utili cose e fuggimmo dalle parti di Vetralla, Pietro Giuseppetti ci avrebbe ospitato. Il tremore del mio corpo continuò per molte ore nonostante le carezze di nonna.
I Fabrianesi quella notte, in pochi dormirono a casa.
Guglielma, la magliaia-affittacamere della Portella si incaricò per tutto il periodo dello sfollamento, di sorvegliare le case in compagnia della cagnetta Lola, quando bombardavano si rifugiava sotto la sedia della padrona.
La città subì molte incursioni aeree e cannoneggiamenti, altre case distrutte, altre vittime, ma questi sono nei ricordi di altre persone.
Ritornai dopo la liberazione, giorno dopo giorno giunsero anche i compagni di giochi della Piazza bassa. Assente giustificato il piccolo Torquato. Lui adesso giocava a rincorrersi con gli angeli. Ognuno raccontava la “sua” guerra. La piazza occupata dalle truppe “zelandesi” accampate. Jonny, il grasso cuoco della compagnia, ci regalava ossa bollite da spolpare. Bandiere rosse, partigiani armati per l’ordine pubblico, lunghe file avanti agli spacci alimentari. Sulle macerie delle case distrutte rigogliose piante di patate e pomodori crescevano. La città stava cambiando pelle. Anch’io non ero più lo stesso monello.
Letto in occasione del 70°anniversario
presso l'oratorio della Carità di Fabriano
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